Mio nonno era un cacciatore e un raccoglitore di funghi. Così mentre dal cielo cadevano fagiani e quaglie, funghi di bosco venivano affastellati nell'anticamera del risotto di sua moglie, una bellissima cesta di vimini. La piccola versione femminile di MacGyver, con accento ciociaro e mani da Nobel per l'Ingegneria casalinga e la Resilienza matrimoniale, era responsabile non solo dei primi piatti, ma pure della spiumatura della sfortunata selvaggina. Senza piume e organi interni i piccoli uccelli prendevano poi il volo del frigo prima di passare alla rotta del forno.
Era un'abitudine consolidata di famiglia, questa, come quella di tenere le stecche di cioccolato nell'armadio dei fucili. Non ho mai capito il perché di questo accostamento, di questa vicinanza. Mio nonno teneva chiuso a chiave l'orrore e il piacere, dicotomia che nelle sue mani diventava fierezza del più forte sul più debole, in quelle dei suoi nipoti un frutto proibito dall'alto tasso glicemico. Sta di fatto che quando le ante del grande mobile di legno venivano aperte il cielo stava per essere toccato. In un modo o nell'altro.
Mia nonna non capiva perché mi rifiutassi di mangiare fagiani e quaglie. Con il pollo e il maiale non storcevo il naso, non facevo la difficile, al contrario li gustavo in tutte le salse. «Non sono animali pure loro?», mi ripeteva. Questo refrain mi ha accompagnato tutta la vita, anzi, fino a un certo punto della mia vita. Di colpo, circa 11 anni fa, tutto mi apparve più chiaro: quel pollo e quel maiale meritavano di non essere mangiati, che l'onnivorismo era una reiterazione senza riflessione e sentimento, che l'orrore resta orrore mentre il piacere si nutre anche di valide strade alternative.
Tutti possediamo un armadio pieno di fantasmi e di errori, di stecche o di fucili, ma se a cadere nel nostro paniere fossero solo stelle?
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